Tra i mezzi di prova disciplinati dagli artt. 187-243, il codice di procedura penale annovera la perizia e la consulenza tecnica di parte, gli strumenti attraverso i quali il sapere tecnico-scientifico contribuisce nella ricerca della verità giudiziale.
La perizia può essere disposta sia in fase di incidente probatorio che in sede dibattimentale; nel primo caso, può essere invocata dal pubblico ministero o dalla persona sottoposta alle indagini ed è disposta dal giudice per le indagini preliminari quando le cose o i luoghi da esaminare siano soggetti a modificazione, ovvero quando vi sia il fondato motivo di ritenere che un testimone non potrà essere esaminato nel dibattimento per infermità o altro grave impedimento o che lo stesso possa essere esposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altre utilità affinché non deponga o deponga il falso.
In dibattimento la perizia è disposta dal giudice, anche d’ufficio, quando occorre acquisire dati, informazioni o effettuare delle valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche.
Il consulente tecnico è nominato dal PM o dal difensore dell’indagato/imputato o delle parti private, affinché offra, anche sotto forma di memoria scritta, un proprio parere tecnico/scientifico rispetto ai temi di prova ammissibili e rilevanti.
Qualora il Gip o il giudice del dibattimento conferisca un incarico peritale, è nella facoltà delle parti di nominare un proprio consulente, in numero pari a quello dei periti, con facoltà di visionare gli atti ed estrarre copia, di partecipare alle udienze e alle operazioni peritali ed elaborare osservazioni o controdeduzioni alle conclusioni del perito, in tal modo assicurando il confronto e la dialettica processuale anche nella fase squisitamente tecnica di formazione della prova.
La perizia e la consulenza tecnica quali mezzi di prova
Classificabili come mezzo di prova, si sostanziano nello svolgimento di indagini, nell’acquisizione di dati o nell’elaborazione di valutazioni che richiedono per loro natura particolari competenze tecniche, scientifiche o artistiche che, normalmente, non fanno parte del bagaglio conoscitivo delle parti processuali o del giudice.
La naturale funzione del perito e del consulente tecnico dunque, è quella di colmare le comprensibili lacune tecnico/scientifiche delle parti e del giudice, dai quali non si può pretendere una competenza in ogni sapere.
Il procedimento penale, dunque, si alimenta di ulteriori contributi capaci di rafforzare la ricerca della verità, che è la finalità propria del procedimento penale. Si pensi, ad esempio, allo straordinario contributo offerto dalla scienza attraverso l’esame del DNA; delle impronte digitali o anche lo straordinario contributo offerto dalla comparazione vocale o grafologica. Procedure ed esiti che, in aderenza alle linee guida e al comune sapere della comunità scientifica di riferimento, assumono un ruolo a volte determinante, se non esclusivo, nel percorso di formazione della prova.
Il sapere scientifico terreno di scontro
In ragione della sempre più crescente importanza assunta nel processo penale, gli elaborati tecnici sono quasi sempre motivo di scontro nella dialettica delle parti, alimentato dalle diverse esperienze, competenze e professionalità coinvolte in questa delicata fase del processo penale.
Significativa, in tal senso, è la nota sentenza della Corte di Cassazione che ha messo la parola fine al processo penale per l’omicidio della giovane Meredith Kercher.
L’importanza di questa decisione risiede nell’avere la Corte di legittimità ribadito il “valore” dell’elaborato consulenziale, scandendo le linee guida in tema di “valutazione” dei risultati tecnici a confronto, in aderenza ai significativi precedenti rappresentati dalle altrettanto note sentenze Franzese del 2002 e Cozzini del 2010.
Prima di ripercorrere il sentiero tracciato con la sentenza Meredith Kercher, in tema di prova scientifica e ruolo del giudice nel processo decisionale su base scientifica, pare opportuno richiamare brevemente alcuni significativi precedenti giurisprudenziali in argomento.
Nell’ultimo ventennio, dalla sentenza Franzese (2002) in poi, tante pagine sono state scritte in tema di prova scientifica e necessità di far operare, in ogni forma di inferenza, il tentativo di smentita, quello che Karl Popper ha definito il “tentativo di falsificazione”.
Alla sentenza Franzese (SS.UU. 10/07/2002) il merito di avere ridisegnato il ruolo del sapere scientifico nel processo penale.
Prima di questo autorevole intervento di legittimità, si riteneva non consentito al giudice stimare la validità della legge scientifica di riferimento e la sua corretta applicazione, a ragione della comprensibile “ignoranza tecnica” del decidente.
L’intervento nomofilattico del 2002 ha ravvivato il dovere del giudice di controllare l’esperto, di verificare la validità della legge scientifica e fare un tentativo di smentita, oltre che di verificare se quella legge scientifica ha rappresentato una concausa dell’effetto.
Per le SS.UU. Franzese non può essere riconosciuto all’esperto il ruolo di portatore sano di verità, poichè anche il suo apporto deve essere sottoposto ad una rigorosa verifica di resistenza, in ciò valorizzando il confronto tra esperti.
Alla sentenza Cozzini invece (Cass. Pen. Sez. IV n. 43786/2010) il merito di avere recepito in Italia i criteri statunitensi contenuti nella sentenza “Daubert”, così sintetizzabili: quando risultano più tesi a confronto perchè il sapere scientifico non può dirsi consolidato o comunemente accettato, sarà il giudice a dover individuare la tesi preferibile, motivando adeguatamente la propria scelta; l’attendibilità di una tesi deve essere sorretta dagli studi, dall’ampiezza, dalla rigorosità e dall’oggettività della ricerca; l’attendibilità della tesi è direttamente proporzionale al grado di consenso che raccoglie nella comunità scientifica di riferimento. Deve trattarsi, cioè, di una teoria sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso scientifico.
La novità più importante di questa decisione è il richiamo alla sentenza “Daubert”, pronunciata dalla Suprema Corte USA nel lontano 1993, nota per avere dettato le linee guida per stabilire se un determinato metodo possa dirsi “scientifico”.
A ben vedere, la sentenza Cozzini non si è limitata a rendere operativi i criteri di valutazione indicati dalla Daubert, li ha ampliati, ricomprendendovi l’affidabilità e l’indipendenza della ricerca scientifica, nonchè le finalità della ricerca.
Per gli estensori della sentenza Cozzini, risulta fondamentale stimare l’attendibilità di una teoria contrapposta.
Per fare ciò, è necessario che l’esperto indichi, e il giudice verifichi, gli studi che sorreggono quella determinata teoria; come sono stati condotti; l’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della ricerca; il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi; le diverse opinioni e critiche che accompagnano gli studi.
In questo percorso di verifica rilevano il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica e, infine, l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove.
I criteri di valutazione dell’affidabilità del metodo scientifico di riferimento contenuti nella sentenza Daubert, e per l’Italia nella sentenza Cozzini, sono riassuntivamente cinque: 1) verificabilità del metodo: una teoria è scientifica se può essere controllata mediante esperimenti; 2) Falsificabilità: i tentativi di smentita, se negativi, confermano l’affidabilità del metodo; 3) Sottoposizione al controllo della comunità scientifica: il metodo deve essere stato reso noto in riviste specializzate in modo da essere sottoposto alla cd. peer review o anche revisione; 4) Conoscenza del tasso di errore: occorre far conoscere al giudice la percentuale di errore, accertato o potenziale, che quel metodo comporta; 5) Generale accettazione: occorre far conoscere al giudice se il metodo proposto gode di una generale accettazione nella comunità degli esperti.
Contrariamente a quanto si verificava prima dell’intervento della sentenza Franzese, l’esperto sarà chiamato ad esprimere non solo il suo personale giudizio, seppur qualificato, ma anche e soprattutto ad indicare le fonti, gli studi e tutti gli elementi capaci di porre il giudice in condizione di saggiare l’affidabilità delle conclusioni.
Di tale complessa indagine il giudice dovrà dare conto in motivazione, esplicitando le ragioni scientifiche e fattuali, oltre che i criteri di valutazione utilizzati, che lo hanno portato a preferire l’una e non l’altra delle tesi a confronto, divenendo, in tal modo, il guardiano del metodo scientifico.
Non sono mancate in passato le prese di posizione contrarie alla scelta operata dalla Suprema Corte USA.
Si compie riferimento all’omicidio di “Cogne” (Cass. Pen. Sez. I n. 31456/2008), all’esito del quale la Corte nomofilattica intese sottolineare la «natura meramente orientativa» dei criteri della sentenza Daubert.
Si deve alla sentenza Cozzini il merito di avere superato la chiusura della sentenza Cogne, imponendo alla Corte di Appello di Trento di adeguare la motivazione ai criteri della Daubert con le specificazione cui si è fatto riferimento in precedenza.
La decisione di legittimità sul caso Meredith Kercher
La decisione adottata dalla Suprema Corte di Cassazione sul noto caso dell’omicidio di Perugia (Cass. Pen. Sez. V n. 1105/2015) rappresenta un ulteriore passo in avanti verso il totale assorbimento, anche in Italia, dei criteri di valutazione dell’elaborato scientifico cristallizzati nelle decisioni Daubert e Cozzini.
Il pronunciato di legittimità sul caso Meredith Kercher, pare avere ancorato il percorso di valutazione del contributo scientifico al processo penale ai principi cristallizzati nelle decisioni Daubert/Cozzini, nella parte in cui è dato rilevare che il giudice deve valutare l’attendibilità soggettiva dell’esperto, la scientificità del metodo adoperato, il margine di errore accettabile e l’attendibilità del risultato, secondo un metodo di approccio critico non dissimile, concettualmente, da quello richiesto per l’apprezzamento delle prove ordinarie.
Si tratta, per come intuibile, di profili processuali e sostanziali di notevole importanza per la loro periodica ricorrenza nelle aule di giustizia, ancor di più alla luce degli altri profili che la decisione sul caso di Perugia ha affrontato.
Il caso Meredith Kercher si segnala, difatti, anche per il forte scontro dialettico tra esperti. Da una parte i consulenti della pubblica accusa, dall’altra i consulenti della difesa rispetto alla valutazione di alcuni reperti, potenziali fonti di prova.
Trattasi, come noto, di situazione ricorrente in ambito giudiziario. Altrettanto ricorrente è la richiesta di nomina di un perito con finalità risolutive dello scontro tra consulenti, per aiutare il giudice nella non sempre facile scelta da trasferire in sentenza.
In effetti, l’altro profilo affrontato dalla sentenza di legittimità del 2015 attiene al ruolo del giudice nello scontro tra esperti e al rapporto del giudice con l’esperto.
È noto che la Corte di Assise di Perugia non ritenne di nominare un perito, a fronte di una specifica richiesta dei difensori degli imputati, sul presupposto che rientrerebbe nelle prerogative del giudice anche risolvere un problema che richiede specifiche competenze tecniche, secondo l’antico brocardo che vuole il giudice peritus peritorum, svincolato dalle conclusioni degli esperti e supportato dal libero convincimento personale adeguatamente motivato.
La decisione venne ridimensionata dalla Corte di Assise d’Appello con la nomina di due periti, sul diverso presupposto che il giudice non ha le competenze necessarie per affrontare percorsi di verifica che richiedono specifiche competenze tecniche.
La decisione della Corte di Assise di Appello ha incontrato il conforto dei giudici di piazza Cavour, con delle puntualizzazioni di notevole interesse per gli operatori del diritto.
Per un verso, sono stati ribaditi i criteri metodologici della sentenza Cozzini, con il definitivo superamento della «natura meramente orientativa» dei criteri della sentenza Daubert.
Sotto altro profilo, si è registrato il superamento, si spera in via definitiva, dell’antico e anacronistico brocardo del Iudex peritus peritorum, definito dagli ermellini obsoleto, all’interno di un articolato e, per certi versi rivoluzionario, percorso argomentativo nel quale: per un verso, è stata censurata la tendenza ad attribuire al giudice competenze scientifiche che normalmente non gli appartengono; per altro verso, è stata ribadita l’indispensabile necessità della perizia a fronte del contrasto tra esperti, stante che un risultato di prova scientifica può essere ritenuto attendibile solo ove sia controllato dal giudice, quantomeno con riferimento all’attendibilità soggettiva di chi lo sostenga, alla scientificità del metodo adoperato, ai margini di errore più o meno accettabile ed all’obiettiva valenza ed attendibilità del risultato conseguito.
(Articolo di: Avv. Giuseppe GERVASI e Gaia GERVASI (Assistente ASP – ISF – pubblicato su “Scienze Forensi Magazine” il 23/02/2023 – Diritti riservati)